D’ora in poi si potrà essere più sicuri quando si deciderà di mangiare un bel piatto di pasta con vongole veraci, una specie di grande interesse commerciale, ma al contempo – soprattutto in certe zone d’Italia, come l’area lagunare di Venezia – assai soggetta a concentrazioni di diossina. Alcuni ricercatori dell’Università di Padova, infatti, hanno scoperto dei biomarcatori stabili di inquinamento capaci di individuare quelle tossiche, in modo da preservare la salute di chi ne è ghiotto.
“Questi biomarcatori stabili di inquinamento – spiega Luca Bargelloni del dipartimento di Biomedicina comparata e alimentazione dell’Università di Padova, che ha guidato il team di ricercatori in collaborazione con il Magistrato alle Acque di Venezia – potrebbero avere un’importante applicazione pratica nell’ambito dei controlli ufficiali così come nell’autocontrollo lungo la filiera produttiva, riducendo i tempi tecnici e i costi dei controlli attuali”. In questa maniera, le vongole tossiche verrebbero bandite dalle tavole degli italiani molto più facilmente e comportando anche spese più contenute.
A tali biomarcatori si è giunti studiando l’effetto degli inquinanti chimici nelle vongole veraci tossiche e analizzando campioni prelevati in zone e periodi dell’anno differenti. Il tutto facendo ricorso a una tecnologia piuttosto innovativa, in grado di analizzare contemporaneamente la risposta di migliaia di geni a diverse condizioni ambientali. Si è scoperto, così, che sia l’accensione sia lo spegnimento di molti di essi dipende da alcuni fattori, quali la variazione stagionale di temperatura, la salinità e il ciclo riproduttivo. I risultati della ricerca padovana sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Molecular Ecology.
A tal proposito, Bargelloni dell’Università di Padova tiene a sottolineare: “Il risultato più rilevante dello studio è stato l’isolamento di una serie di ‘impronte molecolari’ che non si modificano in relazione alle stagioni e identificano le vongole provenienti dall’area ad alto inquinamento di Porto Marghera“. Proprio in un terzo di questa zona, infatti, è vietato il prelevamento di questo tipo di mollusco, per via delle attività industriali presenti che contaminano i sedimenti e gli organismi viventi del luogo.