L’università è superata: meglio concentrare le energie sulla costruzione di una propria impresa affidandosi al “learning by doing“. Così sembrano pensarla Kane Sarhan e Shaila Ittycheria, fondatori di un programma di formazione, Enstitute, che promette di fornire le competenze giuste per avviare una start up con un’esperienza sul campo dopo il diploma. Con due anni di lezioni con una trentina di docenti che vengono dal mondo delle start up di successo newyorkesi, il corso promette di poter fare a meno di una formazione accademica per concentrarsi da subito sul proprio lavoro con il supporto di questi angeli custodi dell’impresa innovativa.
Ovviamente, in un contesto come quello statunitense pesano nella scelta i costi degli studi universitari e spesso il peso dei debiti cui i neolaureati si trovano a far fronte, ma resta aperta la domanda se ai fini del successo di una start up un’intensa esperienza sul campo sia più o meno importante di un proficuo percorso di studi universitari.
Non si può negare che certe realtà nate con l’obiettivo di formare giovani startupper abbiano il vantaggio di finalizzare al lavoro e all’applicazione nell’impresa alcune “materie” di insegnamento: come creare una app per smartphone, come vendere la propria idea on line e così via. Così com’è vero che l’approccio collaborativo e operativo, con docenti e studenti che lavorano fianco a fianco e distante anni luce dalla lezione frontale dall’alto di una cattedra, ha l’enorme vantaggio di rendere protagonista lo studente piuttosto che – come spesso accade negli atenei – compiacere il docente per la declamazione del suo sapere.
Non a caso esperienze come quella della newyorkese General Assembly annunciano il loro sbarco nel Vecchio continente, a Londra, dove presto nascerà un nuovo centro di formazione “on the road” per aspiranti startupper ad alto coefficiente di innovatività. E con tanto di benedizione del premier britannico David Cameron, che ha definito General Assembly come una delle “comunità tecnologiche più dinamiche del mondo”.
Esperienze di questo tipo, come ricorda Ivana Pais sul Corriere.it, si incontrano anche nel nostro Paese. Un esempio sono i seminari di InnovAction Lab, programma destinato ad aspiranti imprenditori, che spiegano ad esempio come presentare la propria idea ai potenziali investitori. Poi c’è la start up school di Minde the Bridge, che porta nella Silicon Valley gli aspiranti imprenditori dell’innovazione, per fargli toccare con mano il clima che si respira e affiancare alle poche ore di teoria tanta pratica e il contatto con gli imprenditori “che ce l’hanno fatta”.
Anche il tutoraggio di Officine Formative o la community del business on line di Wind Business Factor hanno il pregio di seguire la delicatissima fase dell’avviamento affiancando i “temerari” neoimprenditori. E c’è da dire che molti atenei cominciano ad aprire le porte a esperienze del genere, consapevoli che rappresentano un elemento di progresso e di risposta alle difficoltà di creare lavoro e innovazione.
Resta però aperta la domanda: davvero si può fare a meno della formazione universitaria per diventare startupper di successo? Certo, a dare man forte a questa tesi ci sono le storie di Steve Jobs e Mark Zuckerberg che sono partiti da studenti universitari e poi si sono lanciati nelle rispettive imprese lasciando gli studi. Ma quanti saranno quelli che hanno abbandonato l’università per l’impresa senza diventare Jobs e Zuckerberg?
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