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Dalla ricerca alle start-up. Quanto è lungo il passo?

da | Ago 2011 | News | 4 commenti

Chi fa ricerca, vuole fare il ricercatore, e non è interessato alle logiche di mercato o a inserirsi nelle strade che portano al business. Principalmente, è questa una tra le voci che si alzano quando si discute dell’evoluzione dei ricercatori universitari in imprenditori.

Chi crea impresa sul proprio territorio crea valore, posti di lavoro e porta sul mercato una innovazione forte, frutto di un lavoro intenso di ricerca e si da un’altra possibilità che non sia quella esclusiva della retribuzione, spesso molto bassa, dello Stato. Queste, d’altro canto, sono voci molto più forti che si muovono a favore di una formazione manageriale da trasferire ai giovani ricercatori.

Un ricercatore che diventi startupper, che sia pronto a spendere le sue elevate competenze sul mercato per creare una impresa, che sappia fare un business plan del suo progetto e che sappia dove e da chi andare per ottenere finanziamenti che non siano solo pubblici. Se nel nostro Pzaese ci sono delle iniziative, spesso più promozionali che sostanziali, che offrono corsi o servizi business ai ricercatori, negli Usa tutto questo diventerà presto strutturale. Ad annunciarlo è la National Science Foundation (Nsf) che si occupa di finanziare la ricerca in molti settori, e che con il programma I-Corps (Innovation Corps) vuole sviluppare un eco-sistema dell’innovazione fondato sulla ricerca scientifica e i suoi prodotti per portarli a beneficio della società. Gli I-Corps individueranno i ricercatori già finanziati da Nsf che riceveranno supporto aggiuntivo sia attraverso una mentorship, una guida dedicata sia attraverso fondi, per accelerare l’innovazione e attirare capitali privati.

Obiettivi che qui in Italia si propongono gli stessi ufficio di trasferimento tecnologico, ma che non integrano ancora questo orientamento all’impresa, alla concezione che un ricercatore possa evolvere e cambiare il proprio status, e diventare un imprenditore. Il quadro, delineato da diverse ricerche nel campo, evidenzia che spesso motivazioni personali, non sempre legate al fattore denaro, competenze manageriali, disponibilità di risorse esterne e l’atteggiamento più o meno favorevole delle università, sono i fattori principali che incoraggiano o ostacolano la formazione di spin-off.

Una questione appesantita dal fatto che, riporta una ricerca Ceris-Cnr, “nel settore degli spin-off è dato dalla scarsa propensione degli accademici a riconoscere le potenzialità commerciali delle loro scoperte, dovuto non solo a mancanza di informazione ma anche ad assenza di motivazioni e interesse nel considerare le potenziali applicazioni commerciali delle invenzioni”.

Per non tralasciare, infine, che molto raramente gli accademici che creano uno spin-off si dedicano alla neonata impresa full time, ma mantengono il proprio ruolo all’università, il che implica una ricerca non facile di un manager che si occupi di gestire operativamente l’azienda, perché “il professore non farà mai l’imprenditore”. Almeno secondo gli I-Corps, una alternativa c’è, e in un contesto di aumento della disoccupazione, diviene quasi un dovere.

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Fabrizio
Fabrizio
13 anni fa

Veramente interessate! Condivido pienamente, chi fa ricerca è una risorsa importante e preziosa per il nostro sistema economico e meriterebbero un’attenzione maggiore o per lo meno una giusta formazione ed indirizzamento per muovere le proprie capacità verso il “far business”.
Questo non vuol dire far del bene solo a se stessi ma bene al Paese, vuol dire creare lo “spirito del rischio” che troppo spesso la nostra generazione è portata ad evitare con la preferenza ad accontentarsi di stipendi “sicuri” o “certi”…che ormai tanto certi proprio non sono…

Floriano
13 anni fa

Un contributo dalla mia frequentazione (a diverso titolo) di università tecniche italiane, inglesi, scozzesi ed americane.

Gli spin-off universitari italiani tendono ad essere delle (piccole) società di consulenza iper-specializzate, mentre negli USA sono visti come potenziali aziende in grado di generare profitti e posti di lavoro a livello globale.

Un forte incentivo da parte dell’eco-sistema universitario americano alla creazione di spin-off con tali aspirazioni è che lo sfruttamento economico della proprietà intellettuale che ne deriverebbe sarebbe suddiviso equamente tra l’università a cui il ricercatore-inventore appartiene, il laboratorio dove ha operato ed il ricercatore-inventore stesso. Quindi ci sono 3 diverse entità che fanno gruppo e remano tutte nelle stessa direzione: massimizzare il profitto del lavoro di ricerca.

Al contrario, in Italia l’unico detentore della propietà intellettuale dell’invenzione e che quindi ne godrebbe lo sfruttamento economico sarebbe il ricercatore, l’ “one man show” di turno che, ovviamente, non può andare molto lontano, se non fare consulenze più o meno sporadiche.

Floriano
13 anni fa

Errata corrige.
Al contrario, in Italia l’unico detentore della propietà intellettuale dell’invenzione e che quindi ne godrebbe lo sfruttamento economico è il ricercatore, l’ “one man show” di turno che, ovviamente, non può andare molto lontano, se non fare consulenze più o meno sporadiche.