Come esce l’Italia dal questo 2011 di crisi economica globale e rivolte sociali in tutto il Mediterraneo e oltre? Il ritratto che ne traccia il Rapporto annuale 2011 del Censis è quello di un Paese che nel suo 150° anno di unità è in cerca di una nuova identità e vuole tornare ad essere credibile sullo scenario internazionale. Ma soprattutto un Paese fragile e in balia dell’Europa e della grande finanza, con un welfare sempre più asfittico e politiche in favore dei giovani praticamente inesistenti.
Partiamo dalla formazione, dove si registrano difficoltà analoghe a quelle del sistema produttivo. L’Italia è fanalino di coda in Europa per il tasso di occupazione dei laureati, fermo al 76,6 per cento contro una media Ue dell’82,3. e chi lavora nella metà dei casi ha un inquadramento sottodimensionato rispetto al titolo di studio, così come avviene per i diplomati. Ma i problemi cominciano già durante gli studi, con solo il 75 per cento degli iscritti alle superiori che si diploma e solo il 65 per cento dei diplomati che si iscrive all’università. In più, un quinto di questi non conclude il ciclo di studi.
Di chi è la colpa? Sicuramente ci sono ragioni “storiche”, ma di certo il colpo di grazia, per l’istruzione come per il welfare e i trasporti, è arrivato con i tagli lineari degli ultimi anni. Un dato per tutti: tra il 2008 e il 2011 l’organico scolastico è diminuito di 57.000 posti, a fronte di un incremento di 76.000 unità degli alunni.
Ma il Rapporto Censis 2011 ha anche evidenziato qualche segnale di speranza proprio da parte di quel mondo accademico fatto oggetto di tagli ai finanziamenti e al diritto allo studio. Ebbene, in parte le università italiane hanno fatto fronte ai tagli mettendo in campo un certo dinamismo nel campo del fund raising su scala internazionale. Oltre 550 milioni di euro sono arrivati infatti tra il 2008 e il 2010 soprattutto attraverso la partecipazione ai bandi di gara europei, che hanno rappresentato l’86,6 per cento degli introiti complessivi, mentre il restante 13,4 per cento è arrivato da altri finanziatori pubblici internazionali e dal mondo delle imprese.
Fondi europei e partnership con i privati hanno coinvolto un migliaio di dipartimenti universitari (sui circa tremila esistenti). I più “attrattivi” rispetto a queste risorse sono sicuramente le realtà che si occupano di medicina, che si sono accaparrate il 18,7 per cento dei fondi per le attività di ricerca e simili. Seguono Il campo dell’ingegneria e dell’architettura, a cui è andato nel triennio il 17,3 per cento dei 550 milioni giunti negli atenei di casa nostra, e poi le scienze di base (15,9 per cento) e il settore ingegneria industriale e informazione (con il 15,6)
A proposito di rapporti con l’estero, si conferma sia la scarsa capacità di attrarre cervelli stranieri sia a “fuga” di quelli nostrani, ma il Rapporto Censis registra al contempo una scarsa mobilità transnazionale dei giovani italiani. Se in Europa fa esperienze in Paesi diversi da quello di residenza il 15,4 per cento dei 15-35enni, i ragazzi italiani che espatriano per studio sono attorno al 12 per cento, dato che pone il nostro Paese al quartultimo posto della classifica continentale.
Quanto al percorso di studi sembra iniziare ad attecchire l’idea ci una formazione più professionalizzante: in concomitanza con l’istituzione degli Istituti tecnici superiori, crescono infatti, sia pure dello 0,4 per cento, gli iscritti agli istituti tecnici, mentre c’è un calo del 3,4 per cento per i professionali, nonostante sia in aumento la richiesta di personale che abbia soltanto una qualifica professionale. Anche per la formazione degli adulti la crisi si fa sentire e c’è uno stop alla crescita (sia pur sempre nettamente sotto la media europea) dei 25-64enni iscritti a corsi di studio, con la relativa voce di spesa scesa dai 16 milioni di euro del 2009 ai 4,4 milioni del 2011.
A proposito di abbandono scolastico, se il fenomeno registra ancora una trend in diminuzione, lo stesso non si può dire dei giovani che non studiano né lavorano. L’Italia, conferma il Rapporto Censis 2011, vanta il pessimo primato dei cosiddetti “neet” (“not in education, employment or training”): nel 2010 il 22,1 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni, complice la crisi, non sono inseriti in alcun percorso formativo o professionale, mentre nel 2009 erano il 20,5 per cento.