Perennemente escluse dalle classifiche mondiali dei migliori atenei, le università del Sud America hanno deciso di fare da sole. Nessuna tra le istituzioni accademiche dell’America Latina è riuscita infatti a conquistare un posto al sole tra le prime 100 università del globo, ecco dunque che numerosi Paesi dell’area hanno trovato una soluzione sui generis: costruire un indice a livello “regionale”, che escluda il resto del mondo.
Proprio per caldeggiare il ranking “latino” si è riunita nei giorni corsi a Buenos Aires l’agenzia Unesco regionale per l’alta formazione: la classifica sarà un “progetto alternativo a livello locale” che andrà incontro alle esigenze delle istituzioni scolastiche latino-americane. Ma la materia è controversa: secondo alcuni l’idea potrebbe servire a salvare il continente dall’imbarazzante assenza dalle classifiche mondiali, dall’altra potrebbe isolare ulteriormente la regione dal mondo scientifico internazionale.
Quel che è certo tuttavia è che né la classifica 2010 delTimes Higher Education, né quella di QS World University contemplano un solo ateneo latino-americano tra le prime 200 università mondiali. Solo il ranking cinese della Shanghai Jiao Tong University vede incredibilmente in classifica l’Università di San Paolo (Brasile) nella fascia compresa tra la 100esima e la 150esima posizione. Questo tipo di classifiche si basa su numerosi indicatori: peer review accademici, numero di studenti per facoltà, questionari somministrati a studenti e personale, citazioni in pubblicazioni scientifiche e presenze internazionali di studenti e docenti.
Tuttavia, secondo i difensori della bontà del sistema accademico sudamericano si tratta di indicatori difficilmente applicabili nell’area. Per i critici infatti, questo tipo di ranking globali non tiene conto del lavoro “sociale” portato avanti nei confronti delle fasce più disagiate e sarebbero sbilanciati a favore delle nazioni anglofone, perché la maggior parte delle review e delle pubblicazioni sono scritte in inglese. Inoltre, le università latinoamericane sono spesso più “popolose”, sbilanciando così il rapporto “studenti per docente”, anche questo riconosciuto come indice di qualità della didattica.
Da Londra rispondono che la classifica targata Times Higher Education si basa su un sondaggio condotto su 13.000 accademici in tutto il mondo, redatto in 9 lingue (compreso lo spagnolo e il portoghese). Quanto agli articoli scientifici, Phil Baty – tra i curatori della classifica britannica – ammette al Miami Herald che la maggior parte dei paper è scritta in inglese: “Dobbiamo accettare che l’inglese oggi come oggi è la lingua globale della ricerca scientifica”.