La Rete29aprile ha da poco festeggiato il primo anno di vita e con lei i circa 10mila ricercatori strutturati che seguendo il suo appello nel settembre 2010 si sono dichiarati indisponibili ad insegnare gratuitamente. Il “compleanno” è stato festeggiato una settimana fa con un’assemblea nazionale al Dams di Roma Tre, alla fine della quale è stato eletto il nuovo coordinamento che dovrà guidare il movimento e poi con l’incontro di altre realtà agli Stati generali della conoscenza, sempre a Roma. I coordinatori della Rete si dicono decisi a continuare sulla strada intrapresa nell’ultimo anno, in un periodo ancora più difficile per l’università italiana.
Una crisi che i ricercatori della rete definiscono “ristrutturazione al ribasso dell’istruzione, una crisi senza fine e strutturale”. E la Rete si propone come un interlocutore per le forze di opposizione all’attuale governo, ribadendo la volontà di avere una governance basata sulla democrazia partecipativa, il ruolo unico della docenza, l’abolizione del precariato, l’istituzione di un contratto unico pre-ruolo.
Alessandro Ferretti, fisico torinese, uno degli animatori della Rete, non nasconde le difficoltà di quest’impresa visto che anche Andrea Lenzi, il presidente del Cun (in cui la Rete può vantare numerose presenze), vede la riforma Gelmini come un provvedimento che facilita la modernizzazione e rende gli studiosi italiani più competitivi a livello internazionale. E i ricercatori vedono il problema nel fatto che “nei partiti ci sono le lobby dei rettori e degli ordinari che da 20 anni vogliono il declino dell’università”.
A questo proposito Ferretti e i ricercatori della Rete parlano di un mondo politico ancora distante dal comprendere i veri danni di questa legge. Anche Gianni Piazza, ricercatore di movimenti sociali a Catania, descrive allo stesso modo della situazione e dimostra la sua volontà a continuare sulla medesima strada: “Dal 1968, quando sono nati i movimenti universitari, è la prima volta che una componente strutturata della docenza si è mobilitata con questa radicalità. L’esistenza di una generazione di ricercatori attivisti che ha messo in discussione il feudalesimo accademico fa sì che il ciclo di protesta degli ultimi due anni non si sia chiuso dopo l’approvazione della riforma”.