Schietta e libera come la conosciamo, negli occhi un guizzo di ironia e genialità. Non sembra pesare affatto sulle spalle di Margherita Hack quel mezzo secolo abbondante di vita accademica che ne ha fatto una delle maggiori scienziate del nostro Paese. Il viso, anzi, le si illumina parlando di stelle e galassie lontane, di università e di ricerca, ma anche di lotte e di attualità. L’astrofisica e divulgatrice ha aperto le porte della sua casa a Universita.it per raccontare come è cambiato il mondo della scienza, cosa non va e come potrebbe andare meglio.
Professoressa Hack, con più di sessant’anni di scienza alle spalle forse possiamo chiederlo a lei: come è cambiato il modo di fare ricerca in Italia?
Io posso parlare soprattutto del mio ambito, la fisica delle particelle in Italia è sempre stata buona, la scuola di Fermi ha lasciato tracce fino ad oggi. L’astrofisica ha un passato glorioso nell’Ottocento in Italia: il primo gennaio del 1801 è stato un italiano, Piazzi, a scoprire il primo pianetino; il gesuita Angelo Secchi è stato un fondatore della fisica delle stelle. La prima rivista internazionale di astrofisica era italiana. Poi nel Novecento c’è stato un calo, probabilmente perché gli osservatori erano diretti da matematici, nella maggior parte dei casi dei veri e propri baroni.
Allora i baroni c’erano anche cinquant’anni fa?
Certo, anzi ce ne erano di più. Prima del ’68 la maggior parte degli istituti erano monocattedra, oggi in confronto è molto meglio. In Italia l’unico osservatorio liberale era proprio quello di Firenze, quando mi sono spostata a Brera ho dovuto lottare con il mio capo: avevo vinto delle borse e non mi voleva mandare nemmeno ai convegni all’estero.
Ma i fondi c’erano?
I fondi arrivavano dal ministero, erano pochi ma la ricerca era meno costosa. La ricerca su grande scala è cominciata nella seconda metà del Novecento con l’Eso (European Southern Observatory). Oggi l’elettronica ha cambiato tutto, abbiamo specchi da 8 metri per vedere le stelle sempre più lontane. Ne stanno progettando uno da 40 metri per vedere oltre il sistema solare.
Aumentano le possibilità tecniche, ma anche il bisogno di finanziamenti, dunque.
Per fortuna nel settore astrofisico ci sono progetti internazionali in cui l’Italia è coinvolta e deve contribuire, come accade anche per il Cern di Ginevra in fisica. Sono accordi presi prima delle crisi e prima di questo governo. In Italia ci sono stati periodi floridi, per esempio il governo Dini è stato un periodo d’oro per la ricerca, per autonomia e per ottimizzazione delle risorse a livello nazionale. Uno dei tanto vituperati governi tecnici di cui forse ora avremo bisogno. Guardando indietro rimpiango addirittura la Dc: c’è stata tangentopoli, ma quella classe politica ha avuto la capacità di trasformare un Paese di semianalfabeti nella quinta potenza mondiale.
Perché, anche se Tremonti è convinto che “la cultura non si mangia”, economia e ricerca non sono dunque così slegate.
Certo, ma è un fatto di cultura della classe politica. In tempi di crisi ora si taglia sulla scuola, sull’università, sulla ricerca, ma dovrebbe essere il contrario. Un esempio per tutti è il Giappone di sessant’anni fa: un Paese uscito dalla guerra sconfitto, semidistrutto, colpito da due bombe atomiche e con una struttura quasi medioevale è riuscito a invadere il mondo con i suoi prodotti innovativi puntando sulla ricerca applicata. Ma la ricerca applicata non nasce in mezzo ai campi, le università vanno potenziate insieme alla ricerca di base. Qui invece si taglia e il sistema è bloccato.
Anche per la riforma Gelmini non l’abbiamo mai sentita spendere una buona parola. Qual è il punto più dolente?
Il guaio più grosso è quello di aver cancellato la figura dei ricercatori a tempo indeterminato. Non abbiamo nulla da offrire a chi finisce un dottorato, gli si è tolto anche il posto fisso da ricercatori che comunque arrivava tardi. Abbiamo borse, progetti, ma tutto aleatorio e precario e i migliori se ne vanno: dopo aver investito centinaia di migliaia di euro nella loro formazione, li andiamo a regalare alla Germania, alla Francia, agli Stati Uniti. Avevo due collaboratori brillanti, uno è stato assunto a Parigi, l’altro in Spagna. Entrambi hanno meno di 40 e solo all’estero hanno trovato una posizione, guadagnando il doppio o il triplo di quello che percepirebbero in Italia. Se c’erano degli errori del passato da correggere, questa riforma li aggrava.
Diamolo, allora, un consiglio al ministro Gelmini. Quale potrebbe essere una buona mossa per rimettere in carreggiata il sistema accademico?
Ricominciare con una periodicità nei concorsi. Si deve rinsanguare le università, i pensionamenti la stanno svuotando senza possibilità di ricambio, perché i giovani sono tenuti in sospeso. È vero che all’estero i posti a tempo indeterminato spesso non esistono, ma negli Stati Uniti se perdo un posto in questo settore ne trovo un altro subito dopo. In Italia ai giovani non abbiamo nulla da offrire.
E tanti giovani sembrano aver perso la pazienza. L’anno scorso l’abbiamo sentita molto vicina ai ricercatori sui tetti e agli studenti in corteo.
Era dal 68 che non vedevo una simile mobilitazione. E il 68 è servito, per noi astrofisici ad esempio ha significato portare la democrazia negli osservatori.
Anche la mobilitazione del 2010 è servita?
Per ora non vedo grossi risultati. Ma dipende anche dall’humus, con il governo che ci ritroviamo…
La settimana scorsa però gli studenti sono tornati a marciare in molte città, e in molti si stanno preparando a scendere in piazza sabato prossimo con gli “indignati”.
Fanno bene. Speriamo che oltre agli studenti si indigni anche tanta gente, perché in Italia abbiamo qualche motivo in più per farlo.
Anche Margherita Hack è indignata?
Io è da tanto che sono indignata e mi domando sempre perché la gente non si indigni più.