I giovani d’oggi sono davvero senza futuro? Ed è giusto parlare di fuga dei cervelli? Il merito e le pari opportunità sono una chimera? Alla vigilia della festa del primo maggio, quest’anno ancora più festa di precari, disoccupati e inoccupati, Universita.it ha condiviso una riflessione sul futuro dei giovani e degli studenti italiani con il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria.
Maestro di strada a Napoli e membro di diverse commissioni ministeriali su pubblica istruzione, infanzia e inclusione sociale, Rossi Doria con i giovani si è sempre confrontato. E anche come esponente del governo continua a girare le scuole di ogni ordine e grado.
Sottosegretario, sono in tanti a definire “senza futuro” questa generazione di giovani. Lei è d’accordo?
Nessuna generazione è “senza futuro”! Le condizioni di costruzione del futuro però mutano. I nonni di questi ragazzi avevano un futuro che sembrava solo dittatura, guerra e fame. Poi è venuto il boom. I padri – la mia generazione – pareva avessero la strada spianata e protetta anche per i propri figli e invece la crisi ci costringe a ripensare a fondo ogni cosa. Qualche settimana fa ho incontrato 400 studenti delle scuole di Venezia che mi interrogavano senza tanti giri di parole sulle responsabilità della mia generazione nei loro confronti. Ho detto loro che quando a vent’anni rivolsi a mio padre – antifascista e per questo perseguitato – le stesse critiche. Mio padre mi guardò tranquillo e mi rispose che comunque, nonostante tutti i difetti che io potevo vedere, loro ci avevano lasciato un mondo migliore di quello che avevano trovato. Ho detto a quei ragazzi che purtroppo la mia generazione non può dire la stessa cosa. Può solo cercare in questi anni che ci restano di invertire la tendenza e fare qualcosa per il loro futuro. Ciò detto, a me questa generazione sembra straordinariamente preparata, consapevole, aperta al mondo. Sono preoccupato e mi sento responsabile, ma credo che loro si conquisteranno un futuro, anche se con fatica.
Nell’attuale quadro di crisi come dovrebbe cambiare il sistema della formazione (dell’obbligo e universitaria) per contribuire concretamente a un aumento dell’occupazione?
Credo che dovremmo chiederci in un’ottica di sistema come le politiche per la formazione debbano interagire con quelle occupazionali. Ad esempio, come ha detto il ministro Profumo, credo che nelle politiche sul lavoro si debba dare forza al ruolo dell’istruzione, della formazione professionale, dell’apprendistato. Ci sono anche approcci culturali da superare, come ad esempio la tendenza a trascurare e disprezzare la formazione tecnico-pratica o a credere che la formazione ha luogo solo all’inizio della vita, quando è evidente il contrario. Non credo insomma che lo studio di per sé possa risolvere il drammatico problema occupazionale di fronte alla crisi, ma aiutare a superare le disuguaglianze e il nesso di causalità tra povertà e deficit di istruzione. Questo sì la scuola dovrebbe riuscire a farlo.
Corsi di laurea in inglese e preferenza per le materie “tecniche” rappresentano per molti una soluzione efficace. Ma cosa sarà delle materie umanistiche? Sono davvero diventate inutili?
Un amico, anch’egli educatore, mi ha raccontato di aver visitato un liceo a indirizzo umanistico in Irlanda. All’intervallo c’erano alcuni ragazzi con la tuta blu e alcuni con la tuta bianca che uscivano dall’ora di inglese. Stavano andando in officina, quelli con la tuta blu, e in panificio, quelli con la tuta bianca, a imparare due mestieri. Soltanto in Italia vediamo il latino in contrapposizione con la manualità. Un po’ di cultura tecnica, di cultura manuale, aiuta la formazione di tutti gli individui perché serve nella vita. Galileo costruiva cannocchiali. Aristotele studiava le piante. Oggi scienze e discipline umanistiche condividono vasti territori-cerniere. Il valore della cultura non si misura in base all’utilità pratica. Però le nostre agenzie formative devono essere in grado di cogliere i nessi tra discipline diverse. Economia, scienze applicate e antropologia sono ugualmente decisive per la tenuta dei nostri ecosistemi. Le università devono anche raccordarsi maggiormente con le imprese dando vita a più brevetti e ricerca applicata, e devono inserirsi meglio nei filoni di ricerca europei e mondiali, perché attraiamo troppi pochi fondi destinati ai progetti di ricerca. Poi si devono anche reindirizzare questi fondi in modo che anche filoni umanistici importanti per il nostro Paese, dalla conservazione dei beni culturali all’archeologia, possano avere il giusto spazio.
In che misura l’internazionalizzazione può essere utile al nostro Paese e ai giovani?
Il paradosso al quale stiamo assistendo è che i nostri giovani sono molto più internazionalizzati delle strutture formative in cui apprendono. Viaggiano, conoscono il mondo, conoscono le lingue molto di più delle passate generazioni, poi tornano nei propri atenei e incontrano pochissimi studenti stranieri. Questi ragazzi competono con giovani di altre parti del mondo e per questo è bene fare esperienze all’estero e imparare a confrontarsi con altre realtà. Senza contare che vivere in un altro Paese per un periodo è un’esperienza di straordinaria valenza formativa. Il Miur sta lavorando molto sull’internazionalizzazione delle scuole e delle università, per attrarre più studenti dall’estero nei nostri atenei. Il ministro Profumo ci crede molto.
Che idea si è fatto del fenomeno della “fuga dei cervelli”? In Italia siamo a livelli fisiologici di partecipazione a dinamiche globali o c’è qualcosa di patologico?
Come ha detto giustamente il ministro Barca in una recente intervista, dovremmo smettere di chiamarli “cervelli in fuga” per due differenti ragioni: la prima è che questa espressione connota negativamente – come una fuga – la naturale e legittima aspirazione dei giovani a cercarsi un futuro ovunque nel mondo, perché oggi più di ieri siamo cittadini globali. Così si sposta l’attenzione dalla luna al dito: noi dobbiamo occuparci di creare le condizioni perché i talenti possano trovare opportunità all’altezza anche nel nostro Paese. La seconda ragione sta nel fatto che dall’Italia non se ne vanno soltanto i ricercatori: ogni anno dal Sud partono 70mila giovani. Siamo in un contesto globale, ci sono flussi ininterrotti di persone. Il guaio è che seguono sempre le stesse rotte, da Sud a Nord, dall’Italia verso l’estero. Mentre non sono abbastanza i giovani di altri Paesi che scelgono l’Italia per percorsi formativi o di ricerca di alto livello.
A suo avviso funzionano le scuole (superiori) tecnico-professionali? Consentono di arrivare preparati agli studi universitari? O dovrebbe cambiare qualcosa?
Molti istituti tecnici e professionali in Italia hanno risultati eccellenti in termini di apprendimento. Ma non sarebbe corretto valutarne gli esiti solo sulla base di quanti studenti proseguono con successo negli studi universitari. I tecnici e professionali in alcuni casi hanno orari settimanali sopra le 30 ore, tra lezioni e laboratori. Sono scuole in cui si imparano cose difficili, noi dobbiamo smetterla di pensare che andare in officina e usare uno strumento meccanizzato o elettronico per produrre un oggetto sia meno complesso, nobile o qualificante che studiare il greco. Sono saperi diversi. Per questo ha grande importanza il lavoro che stiamo portando avanti per la costituzione e il completamento degli Its (istituti tecnici superiori).
Non voglio banalizzare, ma devo dire che in questo discorso gioca una parte importante l’orientamento alla scelta, guidare i ragazzi alla scoperta dei propri punti forti, delle proprie debolezze e delle proprie parti nascoste. Quindi un ragazzo può anche scegliere strade impreviste, cambiare direzione. Se è convinto, se sa quel che lo aspetta, farà bene.
Lei ha proposto di dar vita a una “Costituente della cultura”. Che funzione dovrebbe avere?
Questo è un dibattito in corso da diverse settimane sulle pagine del Sole 24 Ore, che ha visto autorevoli interventi fra cui quello dei ministri Profumo, Passera e Ornaghi. Per molto tempo si è guardato alla cultura come a un settore improduttivo e costoso, un atteggiamento che ha impedito l’innovazione e ostacolato una visione adeguata del potenziale in termini economici e di sviluppo che la cultura può portare nel nostro Paese. Credo che questa fase sia finita. Questa è la premessa perché la formazione possa riacquisire un posto centrale nel dibattito politico: il 20% di ragazzi che in Italia abbandonano gli studi senza terminare l’obbligo scolastico non è soltanto un problema di inclusione – seppure molto grave – ma è anche un problema economico. Di un Paese senza più mobilità sociale in cui la povertà e il deficit di istruzione hanno una forte componente ereditaria. Allora dobbiamo ragionare in termini costituenti per aprire questa nuova fase, tenendo conto della grave crisi economica internazionale che stiamo attraversando. Capire quante e quali risorse destinare all’istruzione, con quali obiettivi, gestite come.
Merito e pari opportunità: che cosa manca nel nostro sistema d’istruzione perché siano effettivamente garantiti?
Manca la capacità di dare risposte diverse a bisogni diversi. La nostra scuola troppo spesso si è basata su un’idea riduttiva di uguaglianza, a noi servono forme di discriminazione positiva. Chi parte svantaggiato, va accompagnato fin dalle scuole dell’infanzia. Solo così si spezza il circolo vizioso tra povertà e istruzione. E solo così si possono anche individuare e coltivare i nostri numerosi talenti. Serve, quindi, indirizzare le nostre migliori risorse verso le aree più difficili. Lo hanno già fatto grandi Paesi: gli Stati Uniti, la Cina, la Francia… Riconoscere e motivare le competenze dei tanti insegnanti che lavorano in contesti di frontiera con risultati positivi.
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