Sono precari per decenni e nella gran parte dei casi il periodo di attesa termina con l’espulsione dalla carriera accademica. Un investimento che davvero pochi dottorandi, assegnisti e ricercatori “a termine” (follemente innamorato della materia o placidamente adagiati su altri mezzi di sussistenza) ormai si possono permettere.
L’Adi, associazione che riunisce dottorandi e dottori di ricerca italiani, stima che nell’ultimo anno post riforma Gelmini i precari di ricerca e didattica sono passati da 33.000 a 13.400, mentre quelli con il lavoro stabile sono scesi da da 23.800 a 23.400. I ventimila precari che mancano all’appello sono semplicemente scomparsi per i tagli ai fondi e per il blocco del turn over.
Assegni? Sussidi? Macché… forse una pacca sulla spalla o forse nemmeno quella. Una buona notizia almeno per gli oltre tredicimila rimasti, che avranno più possibilità di stabilizzazione? Neanche per idea: l’Adi stima che stando così le cose in termini di fondi e assunzioni l’85 per cento degli assegnisti di ricerca attuali avrà lo stesso destino dei ventimila già “cacciati” dal sistema accademico: per loro nessuna chance di trasformare il lavoro la loro materia di studio, ricerca e didattica.
La riforma ha anche prodotto un altro risultato perverso abbattendo il tetto del 50 per cento dei dottorati senza borsa, perché tranne alcune meritorie eccezioni le università si sono regolate (ma sarebbe meglio dire “sregolate”) a loro piacimento. Sempre l’associazione dei dottori e dottorandi ha registrato un calo di oltre un quarto delle borse messe a bando negli ultimi quattro anni.
Nei 26 atenei statali presi in considerazione si è passati da 5.701 borse del 2009 a 4.229 nel 2012 e dopo l’entrata in vigore della riforma Gelmini il trend negativo sembra inasprirsi. Fanno eccezione gli “economici” dottorandi senza borsa, per i quali la vita si fa ancora più difficile: nessuna retribuzione, obbligo di pagare le tasse universitarie e spesso neanche i rimborsi per spostarsi per ragioni di studio. Che queste non siano condizioni idonee a fare ricerca e produrre innovazione e a rilanciare il Paese non vale neanche la pena ribadirlo.
La riforma del mercato del lavoro in corso di discussione in questi giorni non è purtroppo destinata a cambiare le cose, mentre sul destino dei giovani ricercatori meritevoli e senza santi in paradiso che ambivano a un finanziamento legato alla procedura introdotta dalla legge del 2007 promossa da Rita Levi Montalcini – a giudicare i progetti è in questo caso una commissione di scienziati under 40 per metà impegnati all’estero – è destinata a cadere un’altra scure.
Il governo con la fiducia sul decreto legge semplificazione abolisce il sistema delle “peer review” e, come denuncia il senatore Ignazio Marino, restituisce il giudizio sui progetti a burocrati e baroni universitari che avranno tutto l’interesse a favorire parenti e amici.
Un brutto segnale in un contesto, quello dei giovani ricercatori, già messo duramente alla prova dalla crisi e da scelte politiche miopi. Da un governo tecnico ingaggiato con la “missione” di salvare l’Italia e di metterla sulla strada del merito e dell’innovazione ci aspettavamo provvedimenti di tutt’altro calibro.
Da un ministro (Francesco Profumo) che conosce bene il mondo accademico e le sue logiche, che ha portato a livelli di eccellenza il Politecnico di Torino e che (giustamente) guarda con forte attenzione all’internazionalizzazione, ci aspettavamo un piglio diverso in materia di ricerca e delle sue modalità di finanziamento. Se non altro, perché all’estero a chi destinare i fondi non lo decidono i “soliti noti”.
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