La riforma dell’università approvata dal Governo Berlusconi “non fa altro che ignorare il vero problema della precarietà” e il futuro della ricerca si fa sempre più nero. A lanciare l’allarme è l’Adi, Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani, durante la conferenza stampa “A un anno dalla riforma: presente e futuro di dottorandi e precari della ricerca”, che si è tenuta qualche giorno fa in Senato. Il quadro che ne è emerso non è tra i più confortanti.
L’indagine condotta dall’Adi evidenzia un vero blocco delle assunzioni negli atenei italiani: il numero dei precari della ricerca, dopo la riforma Gelmini, è diminuito di circa 20 mila unità. Nell’ultimo anno si è passati, infatti, dai 33.000 ai 13.400 ricercatori provvisori e l’85 per cento di questi molto probabilmente non avrà più la possibilità di proseguire la propria carriera universitaria.
La precarietà dei ricercatori italiani si evince, anche, da un altro preoccupante dato: le borse di dottorato sono diminuite del 25,9%, passando dalle 5.553 del 2009 alle 4.112 del 2012, mentre si è registrato un aumento dei dottorandi senza borsa. Le modalità di tassazione di questi ultimi, denuncia inoltre l’Adi, si sono rivelate eterogenee e a discrezione degli atenei, talvolta con evidenti differenze all’interno della stessa università.
“I dati – spiega Francecso Vitucci, segretario nazionale dell’Adi – ci mostrano chiaramente come il sistema universitario si stia ridimensionando nel suo complesso”. Visto le preoccupanti condizioni in cui riversa la ricerca italiana, si richiede così che siano abolite le tasse per i dottorandi senza borsa e che venga introdotta un’estensione degli ammortizzatori sociali. Si pretende pure lo sblocco del turn over, che ogni anno causa l’espulsione di decine di migliaia di precari.
Punta il dito contro la precarietà dei ricercatori italiani anche il rettore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, Maria Chiara Carrozza, che definisce i dottorati senza borsa “inaccettabili”. Dinanzi ai dati allarmanti forniti dall’Adi, che già in passato aveva richiesto una sospensione degli effetti della riforma Gelmini, il rettore Carrozza propone il cosiddetto “contratto di dottorato”, che fa del dottorando un “ricercatore in formazione”.
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Per curiosità, ma nelle Università si amministra il Sapere o gli stipendi?
E chi se ne frega non ce lo mettiamo?
Scusate ma è come dire che un apprendista ha la possibilità di fare esperienza e non viene pagato, a quel livello è corretto.
Un dottorando deve lavorare ad un progetto di ricerca, è la sua opportunità per dimostrare che vale.
Quello di cui ci dobbiamo preoccupare è
1) che abbia gli strumenti adeguati per lavorare
2) di capire se è in grado di produrre risultati brevettabili o di valore
Dell’età, del censo, e di tutte le stupidate della carriera universitaria che non esiste più non ci deve fregare niente.
Potrebbe avere anche 50 anni chi se ne frega! Prendiamo Geox nata da un brevetto di un cinquantenne che ha collaborato con l’università! Meglio di decine di dottorandi che fanno tesi ripetitive e prendono titoli pur di poter dire che stanno un gradino sopra gli altri nella società.
Sembra che l’unica cosa di cui ci dobbiamo preoccupare è che il dottorando abbia uno stipendio, e finita la borsa, di capire come rinnovargliela e di assicurargli una vita dignitosa, un contratto con cui possa farsi il mutuo, fare figli e godersi una position in università.
Cos’è l’Università un allevamento di polli? Un allevamento di nerds che sanno qualcosina? Un centro religioso statale dove ci si assicura l’esistenza superando brillantemente esami o pubblicando articoli dai contenuti ripetitivi? Un luogo dove si conoscono persone importanti e, una volta associato il proprio nome a questi con un articolo, si transisce ad uno status di privilegio?
E i risultati? boh chi se ne frega E degli strumenti? boh chi se ne frega
Allora dico: tagliamo tutte le borse e usiamo quei soldi per comprare buona strumentazione, poi brevettiamo il brevettabile e se viene fuori qualcosa di buono proponiamolo sul mercato e sosteniamo la ricerca con il ricavato. Facciamo degli spin-off come fanno gli inglesi o gli australiani.