Uno studio realizzato in collaborazione dall’Istituto di Cristallografia del Cnr di Bari e Biofordgug – uno spin off dell’università pugliese – apre nuovi spiragli riguardo non tanto la possibilità di guarire la malattia di Alzhemeir, quanto invece quella di contrastarla, ritardandone e limitandone gli effetti. Ciò attraverso una diagnosi precoce basata sul monitoraggio della Glicoproteina-P, che regola il passaggio – dall’interno all’esterno del nostro cervello – della beta-amiloide, ovvero delle placche che causano la degenerazione neurologica dei pazienti affetti da questa patologia.
Lo “Studio cristallografico di radiotraccianti Pet in valutazione clinica per la diagnosi precoce dell’Alzheimer”, presentato qualche giorno fa a Bari, ha già suscitato l’interesse del ministero della Sanità ed è stato riconosciuto perfino dalla comunità scientifica internazionale. Il prossimo 21 Giugno, al Policlinico del capoluogo pugliese verrà mostrato il kit che occorre per la diagnosi precoce dell’Alzheimer, una malattia da cui sono affette ad oggi nel mondo 35 milioni di persone, un milione solo in Italia, per un costo complessivo di 604 miliardi di euro l’anno. Durante la presentazione della ricerca si è anche detto che tali numeri “sono destinati a raddoppiare ogni cinque anni”.
Lo studio presentato a Bari risulta molto importante perché permette di fare una diagnosi precoce della malattia prima che le quantità di Glicoproteina-P siano molto basse. “Se io ho 80 unità di Glicoproteina-P – spiega il professore Nicola Colabufo, direttore di Biofordrug – potrò stimolarle attraverso un induttore, e spingerle a fare il lavoro di 100 unità. Ma se ne ho già 30, non posso stimolarle a lavorare di più: sarebbe addirittura dannoso”. In particolare, al paziente viene dapprima prelevato un campione di sangue e, se al suo interno ci sono elevati livelli di rame, si sottopone il soggetto a una Pet, che serve a monitorare l’attività e la quantità della Glicoproteina-P. In caso questa stia degenerando, vuol dire che è in corso il processo dell’Alzheimer.
Tale studio è stato condotto su duemila pazienti monitorati per cinque anni. Si è scoperto così che la Glicoproteina-P è effettivamente “responsabile della progressione neurodegenerativa del soggetto, che normalmente – spiega Colabufo – avviene nell’arco dei dieci anni, dopo che questa proteina, responsabile dell’efflusso della placca beta-amiloide dall’interno all’esterno del cervello, comincia a perdere in termini sia di espressione sia di attività”. I fattori di rischio dell’Alzheimer sono suddivisi in “non modificabili” – ovvero sesso, familiarità, età e sindrome di Down – e “modificabili”, come la bassa scolarità, la depressione, l’alcol, il fumo e il diabete.