Studiare non serve per trovare lavoro? Sì e no. Questa affermazione, infatti, è vera solo se i datori di lavoro a loro volta hanno studiato poco. A far riaccendere il dibattito circa l’utilità o meno dei diplomi liceali e della laurea è stata la lettera aperta ai genitori che debbono iscrivere i figli alle superiori inviata nei giorni scorsi dal presidente della Confindustria di Cuneo. Per Mauro Gola, la cosa più giusta da fare è capire quali sono le figure professionali di cui le aziende avranno bisogno in futuro e indirizzare i ragazzi verso scuole tecniche o professionali, che li preparino a quelle occupazioni.
Peccato che, a ben leggere i dati, si scopra una realtà leggermente diversa. Se i datori di lavoro hanno conseguito la laurea, infatti, è assai più probabile che nelle assunzioni privilegino altri laureati e siano meno propensi a discriminare le candidate di sesso femminile. Insomma, non sente il bisogno di assumere profili più qualificati solo chi, a sua volta, è poco qualificato.
“Servono operai e tecnici specializzati e addetti a impianti e macchinari. Gli altri profili sono marginali”
Nella propria lettera Gola ha invitato le famiglie a considerare i dati relativi alle assunzioni 2017 da parte delle aziende nella provincia di Cuneo. Da essi emerge che su 40mila nuovi occupati “il 38 per cento sono operai specializzati, il 36 per cento tecnici specializzati nei servizi alle aziende, il 30 per cento addetti agli impianti e ai macchinari”. Gli altri profili sono marginali e difficilmente trovano un lavoro. L’opzione migliore, quindi, sarebbe avviare i propri figli verso un futuro da operaio specializzato, piuttosto che puntare su una formazione più teorica e qualificata, che difficilmente li porterebbe a trovare rapido riscontro nel mondo del lavoro.
Un messaggio grave, che sembra implicare un disinteresse da parte dei datori di lavoro nei confronti della conoscenza. Il che, in un contesto globale sempre più competitivo, è un approccio quantomeno miope. La differenza, infatti, la si fa sempre più spesso sul piano dell’innovazione. Per la quale i laureati sono assolutamente indispensabili.
I laureati trovano occupazioni migliori e i datori di lavoro laureati assumono altri “dottori”
Oltre a essere miope e fuorviante, il messaggio lanciato dalla Confindustria di Cuneo è anche in contrasto con quanto dicono i dati relativi al livello di occupazione dei laureati. L’ultimo rapporto Almalaurea, ad esempio, segnala come nella fascia d’età tra i 20 e i 64 anni risultino occupati il 78 per cento dei laureati, contro il 65 per cento di quelli che sono solo diplomati. E, anche sul piano dello stipendio, la laurea dà una marcia in più. Il gap salariale tra laureati e diplomati è del 42 per cento in favore dei primi.
Non solo. Quanto scritto da Gola non contribuisce alla risoluzione di quello che è uno dei principali problemi dell’industria italiana: il 75 per cento dei manager non sono laureati e solo un imprenditore su cinque ha fatto l’università. Tuttavia, affinché le aziende possano crescere e svilupparsi sono necessarie competenze avanzate, che si ottengono solo attraverso lo studio. Svalutare i laureati, quindi, significa condannare la propria impresa a restare piccola e locale.
Questo lo sanno benissimo i datori di lavoro che a loro volta hanno concluso gli studi universitari. I quali tendono ad assumere più laureati. Come mostrano i dati dell’Inapp (ex Isfol), se a capo di un’azienda c’è un laureato, tra i dipendenti in media c’è un 25 per cento di “dottori”. E nelle assunzioni si discrimina meno tra laureati di sesso maschile e femminile. Se, invece, i datori di lavoro hanno in tasca il solo diploma (o anche meno), i laureati tra i dipendenti scendono al 6 per cento.