Siamo abituati a pensare che la fuga dei cervelli italiani all’estero sia un fenomeno esteso e radicato che porta gran parte dei nostri giovani laureati e ricercatori a mettere i loro studi e la loro scienza a disposizione dei Paesi esteri. Recenti indagini sul tema invece dimostrano il contrario, vale a dire che la percentuale di laureati che lascia l’Italia non è così alta e addirittura è minore rispetto a quella di Paesi come la Germania o il Regno Unito. Questo potrebbe sembrare un dato che rovescia positivamente una situazione alle origini desolante per la ricerca e lo sviluppo scientifico e tecnologico italiani.
Aggiungiamo però il numero degli scienziati stranieri che si trasferiscono per lavoro in Italia e vediamo che questo è veramente esiguo: ne esce così un quadro poco rassicurante, quello di un Paese incapace sia di accogliere risorse dall’esterno sia di rendere autonome le proprie e stimolarle alla mobilità.
Guardiamo ai dati Ocse che fotografano il tasso di emigrazione dei laureati italiani nel 2008: la percentuale era di poco inferiore al quattro per cento, di pari passo con quella francese, mentre quella tedesca saliva al sette per cento e quella inglese addirittura fino al dieci per cento. Più basso invece il tasso di emigrazione di Stati Uniti (inferiore all’un per cento), Giappone (1 per cento) e Spagna (2,5 per cento).
Lo studio più recente sulla fuga dei cervelli è quello di Chiara Franzoni – docente del dipartimento di management, economia e ingegneria industriale del Politecnico di Milano – pubblicato a dicembre 2012 sulla rivista di ricerca scientifica Nature Biotechnology. L’indagine analizza il percorso di ricercatori provenienti da sedici nazioni e quattro diversi campi disciplinari con il risultato che conferma ancora i dati Ocse: la percentuale di giovani scienziati emigrati dall’Italia è infatti del sedici per cento, cioè di pochi punti in più rispetto alla Francia (tra il tredici e il quattordici per cento) e di gran lunga minore rispetto a Germania (ventitré per cento) e Regno Unito (venticinque per cento), con gli Stati Uniti che rimangono il centro mondiale per la ricerca e l’eccellenza.
L’Istat chiude poi il quadro senza discostarsi dai dati Ocse e dallo studio Franzoni: un’indagine condotta sui dottori di ricerca rivela che al 2011 soltanto il sei per cento di essi si era trasferito all’estero per lavorare – con diversa oscillazione tra discipline scientifiche più “mobili” e quelle umanistiche più “sedentarie”. Insomma, i dati sembrano smentire gli allarmismi relativi alla fuga dei cervelli.
Infine sempre dall’indagine di Chiara Franzoni il dato sul flusso migratorio dall’estero verso l’Italia: solo il 3 per cento degli scienziati presenti in Italia arriva dall’estero – la percentuale più bassa fra tutte le nazioni sviluppate -, relegando così il nostro Paese al ruolo di realtà chiusa e incapace di inserirsi nel contesto europeo e globale.