Era maggio scorso quando il Decreto legge sviluppo è entrato in vigore, reintroducendo un provvedimento, definito credito di imposta, mirato alle aziende ma con l’obiettivo di dare un’altra fonte di finanziamento alle attività di ricerca svolte da università ed Epr. Un tentativo sia di mobilitare risorse sopperendo al dimensionamento dei fondi pubblici, sia di aumentare l’innovatività delle imprese italiane.
Ma per quel che riguarda il funzionamento nel concreto, sono necessari ancora molti chiarimenti per rendere fruibile realmente il bonus in questione. Come riporta il decreto, il bonus è destinato a imprenditori che svolgano ricerca in collaborazione con università o enti pubblici di ricerca, menzionando anche un’altra tipologia di soggetto di ricerca ancora non meglio identificato.
A livello pratico, l’imprenditore che abbia svolto nel triennio 2008-2010 attività di ricerca e sviluppo, e che proseguirà tale attività nel 2011-2012, vedrà riconoscersi il 90% delle spese incrementali, ovvero la differenza matematica tra l’investimento in ricerca precedente e quello attuale.
Rispetto alle modalità di calcolo si insidia però un altro importante dubbio, ovvero se la ricerca svolta precedentemente comprenda in modo esclusivo le commissioni alle università o possa riguardare anche le attività che l’impresa ha svolto in proprio, o magari in collaborazione con altri soggetti privati.
Tralasciando per un attimo questi dubbi per ragionare sul “modello” disegnato dal decreto, emergono poi altre questioni più strutturali e di strategia che non procedurali. Di che natura sarà tale collaborazione tra università e impresa? L’impresa finanzierà porzioni di ricerca “su richiesta”, oppure in modo esclusivo dovrà “acquistare” e inserirsi in filoni e progetti di ricerca già in corso? Dubbi che, in via ipotetica, dovranno essere chiariti con i regolamenti attuativi, per rendere davvero agile quello che ha promesso di essere un incentivo all’innovazione.