L’ultima in ordine di tempo è stata l’Università di Pisa, il 19 settembre: anch’essa si è infatti adeguata alle norme della cosiddetta “legge Gelmini” (n. 240 del 2010), sostituendo il vecchio insieme di 11 facoltà e 48 dipartimenti con 20 grandi strutture dipartimentali, che accorperanno didattica e ricerca e coordineranno le attività dell’ateneo indirizzate verso l’esterno.
Un traguardo frutto di un lungo lavoro di riorganizzazione, durato mesi, che ha portato alla creazione di un nuovo assetto: non si tratta solo di cambiamenti formali, ma della riprogettazione dell’intera struttura didattica, poiché la nuova concezione del sistema universitario comporta la collaborazione fra strutture diverse che si troveranno a condividere obiettivi e risorse. Alcuni passaggi cruciali sono ancora da completare, come la predisposizione di un bilancio unico per l’ateneo.
La legge Gelmini ha portato a una revisione globale delle strutture universitarie italiane, che si presentano oggi con un volto diverso da quello cui eravamo abituati. La confluenza delle facoltà e dei dipartimenti, che in precedenza gestivano didattica e ricerca in modo separato, in strutture dipartimentali più grandi, ne è solo un aspetto: la legge stabilisce infatti anche norme di altra natura, che vanno a colpire alcuni punti dolenti della realtà universitaria italiana. Tra le principali, l’adozione di limiti precisi “antiparentopoli” contro il nepotismo; l’obbligo di presenza dei docenti a lezione; l’introduzione di un codice etico; la valutazione di merito per il conferimento di fondi; la scelta di consentire solo contratti a termine per i ricercatori; l’adozione di varie misure preventive volte alla separazione degli interessi didattici da quelli economici e ad una gestione obiettiva di questi ultimi.
La riforma, prontamente recepita dagli atenei italiani, è ancora in fase di attuazione pratica, anche se le trasformazioni relative alla struttura sono state già attuate da molte università, dando luogo peraltro ad un panorama molto variegato. L’Unical, ad esempio, ha creato 14 grandi dipartimenti, ognuno dei quali dotato di almeno 50 docenti e caratterizzato da un proprio numero di corsi di laurea; vi si è verificato anche un caso curioso, poiché l’assegnazione del corso di “Scienze della formazione primaria” è stata contesa dai dipartimenti di Studi umanistici e di Lingue e scienze dell’educazione. A Parma, la suddivisione della vecchia facoltà di Medicina in quattro dipartimenti è stata comunicata con commozione dal preside della facoltà stessa, come segno di un nuovo corso nel rispetto di un valore didattico consolidato.
A Bergamo, la conversione della struttura in 6 dipartimenti consentirà di risparmiare 10mila euro annui sull’indennità per i ruoli apicali; all’Università di Trieste, invece, la riforma si è innestata su un terreno già dissodato da anni di cambiamenti progressivi, anch’essi mirati alla confluenza negli stessi “contenitori” di ricerca e didattica. A Padova i nuovi raggruppamenti hanno preso il nome di “Scuole di ateneo”, mentre a Urbino i cambiamenti sono stati relativamente lievi, poiché l’università era già organizzata in forma simile a quella attuale.
Ogni università sta dunque rispondendo in modo personale ai dettami della legge Gelmini, muovendosi in accordo con la propria natura e la propria tradizione: segno positivo di una realtà dotata di una personalità forte e differenziata, in grado di essere valorizzata dai cambiamenti senza perdere in essi la propria identità.
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