Siamo indietro e non riusciamo a recuperare. In Italia il numero dei laureati non cresce quanto dovrebbe, anzi, per la prima volta dal 1945 il numero di persone in possesso di titolo universitario a disposizione delle aziende sta smettendo di aumentare. Del resto, non è difficile immaginare i perché di questo fenomeno in un paese in cui l’abbandono universitario è ancora una piaga difficile da sanare (il tasso di coloro che lasciano prima di completare gli studi è al 45 per cento, tra i più alti d’Europa) e la laurea paga sempre meno nel mondo del lavoro.
Ciò, tuttavia, non vuol dire che la cosa possa farci dormire sonni tranquilli e che non sia preoccupante il fatto che anche paesi nei quali il reddito medio pro capite è inferiore rispetto al nostro, come la Polonia, siano sul punto di superarci quanto a percentuale di popolazione che ha completato gli studi universitari, mentre i paesi maggiormente sviluppati sono ad anni luce di distanza da noi.
Quel che è peggio è che non solo il numero dei laureati non è all’altezza di quello di paesi come la Francia o la Germania (nei quali cresce a un ritmo doppio rispetto a noi), ma quei pochi che abbiamo non siamo nemmeno capaci di tenerceli stretti e li lasciamo andare all’estero. Tra i nostri connazionali che negli ultimi anni hanno scelto la via dell’emigrazione, infatti, secondo le stime dell’Istat uno su quattro è un laureato. Ma i dati potrebbero essere addirittura più alti, perché molti non si iscrivono subito all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero. La fuga dei cervelli non è compensata da altrettanti ingressi: su circa 100mila laureati che hanno lasciato il nostro Paese nel 2015, solo 27mila ne sono arrivati da altre nazioni.
E se si conta che sempre nel 2015 sono deceduti 65mila nostri connazionali che aveva conseguito un titolo di studi universitario, la differenza tra il complesso di queste cifre e il numero dei laureati dello stesso anno – 212mila – significa che l’incremento segnato è pari appena allo 0,12 per cento rispetto ai dodici mesi precedenti.
Già così ci sarebbe poco da stare allegri, ma le cose andranno anche peggio in futuro, visto il calo delle immatricolazioni. Ciò significa che rischiamo di rimanere indietro rispetto ai paesi che stanno investendo maggiormente sullo sviluppo tecnologico e sulle produzioni a maggior valore aggiunto. Il tema – che riguarda in maniera determinante il futuro dell’Italia – meriterebbe più di una riflessione, eppure non riesce a trovare spazio nell’agenda politica.