Entrate giù del 15 per cento dal 2010 al 2015 per le università statali, che hanno visto i propri incassi strutturali letteralmente crollare, come ha spiegato su Il Sole 24 ORE Gianni Trovati, e sono dovuti ricorrere a una cura drastica: un taglio delle uscite del 11,5 per cento. Unica soluzione possibile per rimanere a galla.
Con sempre meno risorse che arrivano dallo Stato, gli atenei pubblici sono costretti a fare maggiore affidamento sulle entrate che derivano dal pagamento di tasse e contributi da parte degli studenti. Così nel quinquennio di riferimento, spiega Trovati, il rapporto tra incassi propri e trasferimenti statali è passato dal 26 al 34,2 per cento. E in questa situazione non aiuta di certo la contrazione del numero di iscritti che sta interessando da alcuni anni l’intero sistema e, in particolare, le università meridionali, che infatti hanno registrato una flessione delle proprie entrate del 20 per cento (quelle del Nord si sono fermate al -10).
A causare questa evoluzione è stato il progressivo taglio del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), diminuito rispetto al 2010 di un miliardo. Dovendo fare i conti con meno entrate, le università statali hanno optato per una politica di contenimento delle uscite, applicando la spending review soprattutto per quanto riguarda il personale. Tra blocco degli scatti di anzianità e stop al turnover, le università sono riuscite a risparmiare il 13,8 per cento delle spese relative a questa voce di bilancio, cercando al contempo di mantenere il livello dei servizi offerti agli studenti. Le uscite per borse di dottorato, assegni di ricerca, scuole di specializzazione, programmi di mobilità e scambio culturale, infatti, mediamente non sono state toccate.
Nonostante questi sforzi, tuttavia, poiché le entrate derivano sempre più dalle tasse studentesche, le università statali del Sud – che hanno dovuto fare i conti con una vera e propria emorragia di studenti – hanno conti pericolosamente in bilico. Come se non bastasse, poi, questi atenei ricevono anche meno fondi dallo Stato, poiché la perdita di iscritti ne zavorra le performance e fa sì che a loro spetti una parte minore della cosiddetta “quota premiale” dell’Ffo.
In questo quadro, spiega Trovati, le misure contenute nell’ultima legge di stabilità, che concedono alle università statali 116 milioni in più per il 2016 e 165,5 per il 2017, non bastano. Esse sono, conclude Trovati, “Una boccata d’ossigeno importante, che da sola non riuscirà però a cambiare le dinamiche strutturali, soprattutto nelle aree con il fiato più corto”.