Se vogliamo rilanciare il sistema accademico italiano, dobbiamo prima di tutto restituire valore al concetto di formazione e istruzione. Punta il dito contro l’assoggettamento a logiche economiche Alessandro Asmundo, rappresentante degli studenti dell’Università di Padova nel Consiglio studentesco e coordinatore dell’Unione degli universitari (UDU) a livello provinciale. L’università, ci spiega Asmundo, “non deve essere solo un trampolino di lancio per il lavoro, né ragionare solo su criteri di efficienza, che predominano sulla formazione”, anche se – purtroppo – da anni non è più così, “come testimoniano i tagli, che rispecchiano un indirizzo politico secondo il quale l’istruzione non è un bene primario”.
Raccontandoci i problemi principali del sistema, il rappresentante degli studenti dell’Università di Padova ci spiega che a gravare sull’università sono poi le enormi carenze del diritto allo studio. “Le borse di studio sono solo un aspetto della questione. Servirebbe un vero sistema di welfare studentesco, che comprenda anche altri servizi: mense, residenze, trasporti, contributi per gli affitti, libero accesso ai corsi di laurea, una didattica innovativa, ecc.”, spiega Asmundo, riecheggiando quanto più volte già sottolineato dai suoi colleghi che abbiamo precedentemente intervistato.
A contribuire in modo determinante all’esplosione della situazione è stata, secondo il rappresentante degli studenti dell’Università di Padova, la riforma Gelmini, rea di aver “fatto troppi danni”. E, allora, occorre tornare indietro? Non esattamente, anzi. Alessandro Asmundo è convinto che una nuova rivoluzione del sistema sarebbe addirittura controproducente: “Le cose adesso stanno andando a regime, non si deve di nuovo cambiare tutto, riportando la situazione a uno stato di incertezza”. Meglio, piuttosto, “lavorare su quello che c’è, cercando di migliorarlo, non di stravolgerlo”.
Il primo passo da fare sarebbe quello di obbligare le regioni a rispettare i vincoli che sono loro imposti dalla legge in materia di finanziamento per il diritto allo studio. Questi enti, infatti, sarebbero tenuti a investire il 40 per cento in più rispetto a ciò che dà lo Stato, “ma spesso questa percentuale è disattesa e, anche quando non lo è, non c’è certezza rispetto alle tempistiche per l’erogazione dei contributi, con tutti i disagi che ciò comporta per gli studenti”, commenta Asmundo.
Serve “uno stop all’arretramento del pubblico, ma domina una logica economica e non si punta sui servizi“, osserva amaro il rappresentante degli studenti dell’Università di Padova. Se i servizi ci fossero, invece, si garantirebbero degli standard ai quali dovrebbero adeguarsi anche i privati, “con effetti positivi anche per ciò che riguarda, ad esempio, i prezzi degli affitti o della ristorazione nelle zone limitrofe agli atenei”. Oltre ai servizi, “occorre anche che per ricerca e didattica si abbandonino criteri valutativi quantitativi. Il metodo dell’ANVUR è quello di dividere in atenei di serie A e di serie B, ripartendo i finanziamenti di conseguenza”.
Asmundo è poi convinto che serva necessariamente l’abolizione del numero chiuso. Il rappresentante degli studenti dell’Università di Padova sottolinea che “bisogna uscire dalla logica che la selezione all’ingresso sia garanzia di qualità”, anche perché a volte l’accesso programmato non elimina il problema degli abbandoni, anzi, “in alcuni corsi di laurea il tasso di drop out è molto alto”. Certo, Asmundo è consapevole che non si possa cambiare tutto da un momento all’altro, ma ciò non toglie che “sarebbe meglio lasciar fare alla ‘selezione naturale’, piuttosto che sbarrare la strada preventivamente”.