I professori universitari italiani diventano sempre più vecchi: l’età media alla quale si diventa ordinari nel 2012 ha superato i 59 anni (attestandosi a 59,4). In un mondo in costante e rapida evoluzione, che è radicalmente diverso da com’era solo un decennio fa, l’invecchiamento della classe docente dei nostri atenei rappresenta un’autentica emergenza. Come se non bastasse, anche tra gli associati e i ricercatori l’età si è innalzata di molto nell’ultimo trentennio.
Nel 1983 in media si otteneva la cattedra a 52,6 anni. Rispetto ad allora, nel 2012 l’età media dei professori ordinari è cresciuta di 7,8 anni. Questo è il secondo peggior dato di sempre (il record negativo è stato nel 2008, quando si arrivò a 59,7 anni) e dà l’idea del progressivo invecchiamento dei nostri docenti universitari, che arrivano al vertice della carriera quando sono già in là con gli anni e non troppo lontani dalla pensione.
Per i professori associati e i ricercatori va anche peggio: in media, gli esponenti di entrambe le categorie sono più vecchi di 10 anni rispetto al 1983. Nel 2012 tra i professori universitari di seconda fascia si è raggiunto il dato più alto di sempre: 53,4 anni di media, contro i 44,3 di trent’anni prima. L’età media dei ricercatori è passata, invece, dai 35,9 anni del 1983 a 45,9 anni. E questa cifra, che mai era stata così alta, pare addirittura destinata a crescere. Colpa della messa a esaurimento, con una lenta contrazione che ha portato il numero dei ricercatori nelle università italiane dal picco massimo dei 25.581 del 2008 ai poco più di 24mila di oggi.
Qualche tentativo per invertire la rotta e tamponare l’emergenza dell’invecchiamento dei nostri professori universitari è stato fatto – come l’abolizione delle docenze fuori ruolo (cioè dopo la pensione) e i limiti alla concessione del biennio di proroga – ma sembra essere andato a vuoto. Tanto che i numeri dell’Annuario Scienza Tecnologia e Società 2014 rivelano che l’Italia ha solo il 12,1 per cento di professori e ricercatori con meno di quarant’anni, mentre la Germania ne ha il 49,2. In questa speciale classifica, che ci relega all’ultimo posto tra i 28 Paesi dell’Unione Europea e restituisce gli esatti contorni di questa emergenza, ci superano – e non di poco – perfino la Polonia (35,8 per cento) e il Portogallo (29,5 per cento).
Così, mentre cresce il predominio della tecnologia e aumenta il potere dei nuovi media, l’Italia lascia che la formazione dei propri giovani e la ricerca che dovrebbe garantirci di poter affrontare le sfide del futuro siano affidate a professori vecchi e logorati dai troppi anni passati in attesa di raggiungere il livello più alto della carriera universitaria. Certamente non un buon viatico per la ripresa del Paese.