Lo stage? Un’esperienza che coinvolge ogni anno laureati e laureandi ma che nella maggior parte dei casi si conclude con una stretta di mano, o con una richiesta di prolungare il periodo di tirocinio.
Uno strumento valido per farsi un’idea, insomma, ma poco utile per trovare lavoro. È quanto emerge dal Rapporto “Gli stagisti italiani allo specchio“, presentato oggi da Isfol e Repubblica degli Stagisti alla Sapienza di Roma e relativo ai risultati del sondaggio condotto nel 2009 su quasi tremila stagisti italiani, la maggior parte dei quali di età compresa tra i 25 e i 30 anni.
I dati dell’indagine parlano chiaro: su oltre cinquemila stage considerati, più della metà (il 52,5 per cento) non hanno avuto un seguito. Nel 17,4 per cento dei casi allo stagista è stato chiesto di prolungare il periodo di tirocinio.
Solo al 21 per cento degli stage è seguita un’offerta di lavoro. Tra le offerte, quelle di un contratto a tempo indeterminato rappresentano la minoranza (2,3 per cento), mentre abbondano le richieste di collaborazione a progetto (6,4) o occasionale (6,8).
In compenso le possibilità di firmare un contratto di lavoro di qualsiasi natura, dopo lo stage, aumentano se il tirocinio è stato fatto dopo la laurea specialistica (dove la possibilità di contratto sale al 24,3 per cento) o al termine di un percorso professionale (dove tale possibilità arriva al 28,4 per cento).
Ma il dato più allarmante è soprattutto quello di una generazione che subisce il circolo vizioso dello stage, in Italia snaturato della propria valenza formativa e di orientamento, e utilizzato come rapporto di lavoro a costo zero. Aspetto emerso con lo scandalo degli stage da commessi all’Orientale di Napoli, solo la punta di un iceberg, in realtà.
Sui circa tremila intervistati dall’Istituto per la formazione professionale dei lavoratori, infatti, ben il 32,7 per cento ha alle spalle due esperienze di stage, il 13 per cento tre, il 3,9 per cento quattro, l’1,2 per cento cinque e lo 0,7 per cento addirittura più di cinque.
Il fenomeno messo a nudo dalla gran parte degli intervistati è proprio quello dei “serial stagisti“, tirocinanti seriali che accumulano esperienze di stage senza poi vedere realizzate le proprie aspettative di ingresso a pieno titolo nel mercato del lavoro. Tra questi, ci sono più ragazze che ragazzi a dimostrazione della maggiore intraprendenza femminile da un lato, ma anche del più difficile inserimento delle donne nel mercato del lavoro dall’altro.
“Lo stage rappresenta un fondamentale strumento per favorire le fasi di transizione alla vita attiva, essendo formativo per il primo ingresso al lavoro e orientativo per il completamento della formazione – ha detto lo stesso Domenico Sugamiele, direttore generale Isfol -. Per queste ragioni ne andrebbero meglio regolamentati gli aspetti relativi alla durata, limitandone la frequente reiterazione”.
La proposta dell’Isfol è stata proprio quella di cambiare la normativa sullo stage e fare in modo che le competenze acquisite durante l’esperienza di tirocinio possano essere tracciate e riconosciute in un libretto formativo che faccia un po’ la storia di ognuno.
A questa prospettiva si è aggiunta quella disegnata da Eleonora Voltolina, direttore responsabile della Repubblica degli Stagisti – testata che insieme a Isfol ha curato l’indagine – che ha proposto invece di creare un database degli stage che sia in grado di monitorare non solo la quantità di offerte ma anche l’esito, in modo da fornire ai futuri stagisti un feedback valutativo che li orienti a scegliere uno stage piuttosto che un altro. “Questo strumento potrebbe essere gestito dai Centri per l’Impiego, coinvolgendo le università, le agenzie per il lavoro, le scuole e tutti i soggetti che si occupano della promozione di stage” ha suggerito.
Claudia Bruno