Italia Paese di cervelli in fuga? Meno di quanto si pensi. Non solo: la migrazione dei lavoratori della conoscenza ha importanti risvolti positivi. Un ricercatore costretto a lavorare all’estero, infatti, una volta tornato nel proprio Paese di origine, ha un impatto scientifico e una produttività più alti della media. A rivelarlo è un’analisi effettuata da Elsevier, autorevole casa editrice scientifica, che ci offre un’immagine di ciò che sono i flussi migratori dei ricercatori da e verso l’Italia che va oltre lo stereotipo del cervello in fuga.
Elsevier ha condotto il suo studio sulla cosiddetta “brain circulation” in Italia tra il 1996 e il 2011 attingendo al database Scopus e ha confermato che la maggior parte dei ricercatori di nazionalità italiana continua a operare nel proprio Paese di origine. Ad emergere, in generale, è che la mobilità dei ricercatori, attraverso cui si attua l’internazionalizzazione della ricerca, è un fattore critico essenziale per il successo della ricerca stessa in termini di produttività e di qualità. Lo studio è stato presentato in occasione del “National Reserach Policy Forum” organizzato da Elsevier in collaborazione con il CNR e si è fondato sull’analisi delle affiliazioni che i ricercatori italiani hanno usato nel firmare le proprie pubblicazioni, tracciando dunque una mappa dei loro spostamenti.
Sono state individuate tre diverse categorie di ricercatori: gli “stanziali” (che hanno pubblicato solo con istituti italiani), i “migratori” (che hanno lavorato e pubblicato in nazioni diverse dall’Italia per almeno due anni o che si sono stabiliti definitivamente all’estero) e i “visitatori” (che hanno fatto ricerca per meno di due anni in nazioni diverse da quella nella quale hanno operato in prevalenza). L’indagine di Elsevier ha preso in considerazione la produttività in termini di articoli pubblicati per anno, l’impatto scientifico delle pubblicazioni e l’anzianità professionale media, ossia il tempo intercorso tra il primo lavoro e il più recente.
Lo studio ha fotografato la situazione sia dei ricercatori che hanno iniziato la loro carriera in Italia sia di quanti vi sono transitati o immigrati da Paesi esteri. I risultati hanno mostrato che, a differenza di quanto si creda comunemente, la maggioranza dei ricercatori (il 58 percento) fa parte del gruppo degli “stanziali” ed è presumibile che sia anche di nazionalità italiana. Quelli che sono espatriati definitivamente – i cosiddetti “cervelli in fuga” – sono appena il 5,1 per cento, mentre rappresentano solo il 4,3 percento quelli che dall’estero hanno deciso di trasferirsi stabilmente in Italia. Infine, quasi un terzo dei ricercatori (il 32,6 percento) sono “visitatori”, ovvero hanno lavorato prevalentemente in un Paese e per meno di due anni hanno pubblicato con istituzioni estere.
L’indagine di Elsevier sottolinea anche un altro importante aspetto: chi è rimasto nel proprio Paese di origine non solo ha una più bassa produttività e minor impatto scientifico, ma anche un’anzianità professionale inferiore. I “visitatori”, invece, sono quelli che presentano i migliori dati in quanto a produttività e impatto scientifico, mentre si classificano secondi come media di anzianità professionale. Infine, i “migratori” hanno la seconda produttività, ma vincono in termini di anzianità professionale media. Il saldo tra i cervelli in fuga e quelli “importati” è negativo (-0,8 percento) e le mete predilette dai ricercatori italiani sono Stati Uniti, Francia, Svizzera e Germania. I settori che registrano il maggior numero di espatriati, invece, sono quelli inerenti alla fisica, alla biologia, all’ingegneria, alla biochimica e alla genetica molecolare.
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