Sono disposti a versare 10.000 euro a favore dell’ateneo per dimostrare la propria volontà di pentimento e la disponibilità al risarcimento. Gli studenti coinvolti in “esamopoli”, l’inchiesta che coinvolge 127 imputati accusati di diversi reati che ruotano attorno alla vendita di esami in ateneo, tentano così una riduzione della pena e la possibilità di uscirne con la fedina pulita.
A lanciare un appello fu il pubblico ministero Francesca Romana Pirrelli che nell’udienza preliminare aveva proposta questa soluzione riconciliativa; un risarcimento monetario all’università, simbolo del pentimento e di un riconoscimento morale all’ateneo.
La buona volontà sarebbe affiancata da quella dei genitori anch’essi imputati nello stesso procedimento, i quali verserebbero 5 euro ciascuno, e risparmierebbe ai ragazzi non pochi ostacoli. Primo fra tutti, la possibilità di godere delle attenuanti generiche e di conseguenza di una riduzione della pena.
Non è esclusa quindi nemmeno la possibilità di patteggiare, a costo di una sospensione di un anno accademico dalla facoltà di Medicina e Chirurgia coinvolta nello scandalo, e di uscirne quindi “puliti” in termine di fedina penale, il che gli permetterebbe inoltre di non essere esclusi dai concorsi pubblici. Intanto è stata fissata per il 6 maggio la prossima udienza del processo, e il 12 gennaio, davanti ai giudici della prima sezione penale del Tribunale del capoluogo pugliese, si sono costituite le parti.
Il mercato degli esami generava introiti per circa 50.000 euro l’anno, e un singolo esame andava dai 500 ai 2.000 euro. Dopo i sette docenti indagati per concorsi truccati che ha messo l’ateneo di Bari al centro delle indagini sempre nel 2009, l’università ha deciso di costituirsi parte civile in tribunale, chiedendo 26,6 milioni di euro di danni.