I corsi del nuovo anno accademico stanno per iniziare e prima o poi il nodo sarebbe venuto al pettine. Tra gli atenei italiani il caso è scoppiato all’Università di Bologna. Qui i ricercatori, che già nel corso dello scorso anno accademico avevano annunciato di voler aderire al blocco della didattica – vale a dire alla sospensione delle attività didattiche non obbligatorie per legge, in segno di protesta contro la riforma universitaria e i tagli – ora sono con le spalle al muro. L’Alma Mater ha deciso infatti di mandare un ultimatum. In una lettera che i presidi invieranno ai ricercatori l’ateneo chiederà loro di indicare per iscritto la disponibilità per l’avvio delle attività didattiche. Chi risponderà di non essere disponibile – e anche chi non risponderà affatto – sarà sostituito da un docente esterno.
La lettera sarà inviata nelle prossime ore proprio ai ricercatori delle facoltà dell’ateneo, che avranno tempo fino a venerdì alle 13 per rispondere. Saranno gli stessi presidi che avevano sostenuto i ricercatori durante l’estate a inviare il documento di inizio autunno. Una decisione, quella dell’ultimatum ai ricercatori, presa dal Senato Accademico all’unanimità “pur nella consapevolezza del grave disagio e delle difficoltà che i ricercatori stanno attraversando”, come si legge nel documento che sarà inviato, e in nome soprattutto del “dovere dell’Ateneo nei confronti degli studenti e delle famiglie le quali, al pari nostro, stanno fronteggiando momenti di profonda crisi economica e sociale”.
In questo modo, spiega l’ateneo, verranno garantite le lezioni e gli studenti. Un gesto che in compenso rischia di cancellare definitivamente l’efficacia di una protesta, quella dei ricercatori pubblici, che avrebbe seriamente portato al collasso il sistema della didattica universitaria. Sebbene non spetti loro per legge, infatti, i ricercatori italiani coprono quasi la metà di corsi e lezioni nelle nostre università pubbliche. Togliendo questa disponibilità incondizionata, con lo “sciopero bianco“, i ricercatori avevano trovato il modo per farsi sentire, e forte.
Adesso, decidere di sostituirli con docenti a contratto, esterni, sottopagati o gratis – vista la situazione in cui vertono i fondi d’ateneo – è grave, “gravissimo” come hanno voluto dichiarare gli stessi ricercatori. A intervenire sulla vicenda, anche personalità politiche. “Non è forse vero che loro garantiscono il 40% della didattica nelle università italiane? Sono certo che il rettore dell’Alma Mater ne sia ben conscio: chiamare in causa dei docenti a contratto rischia di scatenare una guerra tra i soggetti meno tutelati, che non serve né all’università né agli studenti” ha detto Ignazio Marino, senatore PD.
Per Marco Meloni, responsabile università Pd, serve l’intervento del Governo sul caso e l’attenzione di tutto il sistema universitario per “superare in modo definitivo l’assurda condizione per la quale nell’università italiana ci sono poco più di 30.000 professori, ma se la didattica non fosse assicurata da oltre 25.000 ricercatori strutturati e da circa 20.000 precari, le università non potrebbero funzionare”
Claudia Bruno